domenica 18 marzo 2018

Maschera /persona

<<L’attore del teatro classico indossava una maschera tragica o comica: la portava sul volto, divenendo altro da sé, negli innumerevoli personaggi di volta in volta interpretati; era essa che indicava i tipi umani rappresentati, le espressioni dei loro visi ed al tempo stesso celava il vero volto di chi stava recitando. Il mascheramento pertanto può avere anche senso negativo, se inteso come occultamento, in quanto recita – e dunque inganno; questo fenomeno di “traslazione di significato” è testimoniato dal fatto che anche gli stessi Neoplatonici, tra i quali c’è, come abbiamo visto, Plotino, usino la metafora come simbolo della condizione duale dell’umanità, destinata a portare sul palcoscenico della vita una parte scritta da un altro, avvertita comunemente come un “inganno” divino. L’iniziatore del teatro ed il creatore della maschera è considerato Dioniso: essa dunque è anche il simbolo del mistero in senso generale, del non conoscibile genericamente inteso, ma anche degli stessi misteri; era infatti una delle allegorie orfiche ed accompagnava quella dello specchio: chi la indossava diventava altro da sé e, così come era previsto per un iniziato, cambiava vita, poiché da uno diveniva anche duplice ed al tempo stesso molti, mettendo in pratica su di sé la coincidentia oppositorum. Essa inoltre era anche una delle tante teofanie di Dioniso: Pausania racconta che certi pescatori di Methymna, nell’isola di Lesbo, là dove, secondo il mito, approdò anche la testa mozza di Orfeo sulla sua lira, trovarono una maschera (πρόσωπον) di legno di ulivo e, credendola la testa del dio, la considerarono una sua manifestazione. Agli Stoici, dei quali i Neoplatonici ed Inni orfici non a caso sono debitori, dobbiamo l’allegoria della maschera (latino persona) come ruolo recitato dall’uomo nella propria vita: è Epitteto nel Manuale (Ἐγχειρίδιον Ἐπικτήτου, XVII) a darci questo insegnamento:
Μέμνησο, ὅτι ὑποκριτὴς εἶ δράματος, οἵ ου ἂν θέλῃ ὁ διδάσκαλος· ἂν βραχύ, βραχέος· ἂν μακρόν, μακροῦ· ἂν πτωχὸν ὑποκρί νασθαί σε θέλῃ, 

ἵνα καὶ τοῦτον εὐφυῶς ὑποκρί νῃ ἂν χωλόν, ἂν ἄρχοντα, ἂν ἰ διώτην. σὸν γὰρ τοῦτ' ἔστι, τὸ δοθὲν ὑποκρί νασθαι πρόσωπον καλῶς· ἐκλέξασθαι δ' αὐτὸ ἄλλου.
Leopardi nel suo Manuale di Epitteto traduce così:
Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentar bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro.
Sembra di sentire anche il monito di Pletone agli uomini affinché svolgano con dedizione e consapevolezza il proprio ruolo, assegnato nella koinonìa da Zeus, qui rappresentato dal poeta che attribuisce le parti. Del resto Epitteto era stato uno dei maestri di morale del filosofo di Mistra ed il Nostro poteva ritrovare vicendevolmente confermati nell’uno i concetti dell’altro e nei loro i propri. Leopardi traduce con persona, alla latina, il vocabolo πρόσωπον, ovvero adopera la stessa parola che è nella traduzione dal greco al latino di Poliziano del medesimo brano:
Memento actorem te esse fabulae, quamcumque is velit, qui docet: si brevem, brevis, si longam, longae. Si mendicum agere te velit, et tunc ingegnose age: si claudum, si principem, si privatum. Ad te enim pertinet datam tibi personam bene agere, eligere ad alium.
Il Nostro usa la metafora della “pluralità” che ne deriva, più che del “nascondimento”, nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri (capitolo I), laddove loda Socrate:
Anche diceva, che nei libri dei Socratici, la persona di Socrate è simile a quelle maschere, ciascuna delle quali nelle nostre commedie antiche, ha da per tutto un nome, un abito, un’indole; ma nel rimanente varia in ciascuna commedia. >>
(da Maria Assunta Scannerini, Arimane, la scelta delle tenebre: Giacomo Leopardi ed il Neoplatonismo orfico-mazdeistico di Giorgio Gemisto Pletone, Youcanprint, 2017, pp. 322-323)


Nel Rinascimento l'allegoria della maschera, anche come rappresentazione "duale" di vizio e virtù, è anche nell'iconografia pittorica: nel 1534 ca Giorgio Vasari se ne servì per fare un ritratto postumo di Lorenzo il Magnifico, che tanto aveva incoraggiato il Neoplatonismo. Il pittore descrive in una lettera al duca Alessandro de Medici la propria opera (e si notino, per inciso, le "rose e le viole" come simbolo di virtù):
Farollo adunque a sedere, vestito d’una veste lunga pavonazza, foderata di lupi bianchi e la man ritta piglierà un fazzoletto, che pende da una coreggia larga all’antica, che lo cigne in mezzo. Dove a quella sarà appiccata una scarsella di velluto rosso a uso di borsa e col braccio ritto poserà in un pilastro, finto di marmo, il quale regge un’anticaglia di porfido e in detto pilastro vi sarà una testa di una Bugia, finta di marmo, che si morde la lingua, scoperta dalla mano di Lorenzo il Magnifico.

Il zoccolo sarà intagliato e faravvisi drento queste lettere: “Sicut maiores mihi ita et ego post[eris] mea virtute preluxi” Sopra questo ho fatta una maschera bruttissima, figurata per il Vizio, la quale stando a diacere in su la fronte, sarà conculcata da un purissimo vaso, pien di rose e di viole, con queste lettere: “Virtus omnium vas”. Arà questo vaso una cannella da versare acqua appartatamente, nella quale sarà infilzata una maschera pulita, bellissima, coronata di lauro; e in fronte queste lettere o vero nella cannella: “Premium virtutis”.
Dall’altra banda si farà del medesimo porfido finto una lucerna all’antica con piede fantastico e una maschera bizzarra in cima, la quale mostri che l’olio si possa mettere fra le corna in su la fronte; e cosi cavando di bocca la lingua, per quella facci papiro e così facci lume, mostrando, che il Magnifico per il governo suo singulare non solo nella eloquenza, ma in ogni cosa, massime nel giudizio fe' lume a’ discendenti suoi e a cotesta magnifica città. (lettera senza una data precisa - se ne conosce solo il mese, gennaio - da Le opere di Giorgio Vasari, pittore e architetto aretino, parte 2, vol. 2, Davide Passigli e Soci, Firenze, 1838, p. 1425).

(dalla pagina Facebook Leopardi ed il Neoplatonismo in Arimane, la scelta delle tenebre, @ArimaneLeopardi).

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