domenica 18 marzo 2018

L'allegoria del chicco di grano.

Il Vangelo di oggi, domenica 18 marzo 2018, è quello di Giovanni,12, 20-33, relativo alla parabola del chicco di grano:
<<In quel tempo tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c'erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l'ora che il Figlio dell'uomosia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.">>
Quando gli Umanisti neoplatonici trovarono allegorie simili nei testi pagani fino ad allora sconosciuti portati dall'oriente bizantino da Pletone in primis e poi dagli altri saggi che fuggivano dagli Ottomani e le confrontarono con le informazioni e le deduzioni degli antichi padri della Chiesa, trovarono alcune analogie che interpretarono come profezie. Una di queste è appunto l'allegoria misterica orfica del chicco del grano, che per nascere deve morire sotto terra. Ippolito ci informa infatti che il mistero centrale dei culti eleusini, che erano collegati con l'Orfismo, consisteva nel mostrare agli iniziati una spiga matura di grano. Nei pinakes, sorta di quadretti soprattutto di terracotta offerti nel VI secolo in Magna Grecia (specialmente a Locri Epizefiri), dalle fanciulle prossime al matrimonio alla dea delle messi Persefone in qualità di consorte di Plutone (in questo caso dèi orfici della rinascita e della fecondità), la dea è spesso raffigurata con una o più spighe in mano.
Si noti che nel suo Vangelo Giovanni racconta che la parabola era stata rivolta anche ad alcuni Greci (*), che evidentemente potevano comprendere ancor meglio l'allegoria, tanto più che la comunità di Giovanni si trasferì ad Efeso, in Grecia, e che il Vangelo fu scritto in greco in quella città. Anche san Paolo, del resto, predicando ai Corinzi, adottò la stessa allegoria:
<<Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco, di grano per esempio o di altro genere>>.
Paolo lettera ai Corinzi (Corinzi, I, 15).

(*) Qualora si voglia interpretare"Greci" come "Gentili" ovvero pagani la questione non pare cambiare.

Nell'immagine un pinax raffigurante Plutone e Persefone, Museo archeologico di Reggio Calabria.


Tracce neoplatoniche orfico-ermetiche rinascimentali


Tracce neoplatoniche orfico-ermetiche rinascimentali: 





Orfeo (sopra), Pitagora, Platone ed Aristotele (sotto), di Luca della Robbia (1399 o 1400 - 1482), formelle del Campanile di Giotto (lato nord), ora al Museo dell'Opera del Duomo, Firenze.









(sotto) Tarsia di Orfeo - o, secondo il catalogo della Fondazione Zeri, di Esculapio - del pavimento della Cappella di santa Caterina, San Domenico, Siena, opera per alcuni anonima, per altri attribuita a Domenico Beccafumi (1486 – 1551 ) o Francesco di Giorgio Martini (1439 – 1501).





Il fatto che il personaggio tenga in mano uno specchio farebbe propendere per l'interpretazione orfica, essendo esso uno degli oggetti simbolo di Dioniso Zagreo. Sappiamo però che il Neoplatonismo era sincretistico anche riguardo ai materiali che erano alla base delle allegorie in esso usate, che le divinità vi erano assimilate tra loro e che Esculapio/Asclepio era una figura fondamentale della sua dottrina.



Naturalmente ancora una volta la presenza di personaggi pagani all'interno di una chiesa cristiana allude alla funzione che era loro attribuita di profeti della venuta di Cristo: così erano spiegate le analogie che i Neoplatonici intravedevano tra certe allegorie e dottrine pagane presenti nei testi che studiavano e gli insegnamenti biblici ed evangelici.

(dalla pagina Facebook Leopardi ed il Neoplatonismo in Arimane, la scelta delle tenebre, @ArimaneLeopardi).

Maschera /persona

<<L’attore del teatro classico indossava una maschera tragica o comica: la portava sul volto, divenendo altro da sé, negli innumerevoli personaggi di volta in volta interpretati; era essa che indicava i tipi umani rappresentati, le espressioni dei loro visi ed al tempo stesso celava il vero volto di chi stava recitando. Il mascheramento pertanto può avere anche senso negativo, se inteso come occultamento, in quanto recita – e dunque inganno; questo fenomeno di “traslazione di significato” è testimoniato dal fatto che anche gli stessi Neoplatonici, tra i quali c’è, come abbiamo visto, Plotino, usino la metafora come simbolo della condizione duale dell’umanità, destinata a portare sul palcoscenico della vita una parte scritta da un altro, avvertita comunemente come un “inganno” divino. L’iniziatore del teatro ed il creatore della maschera è considerato Dioniso: essa dunque è anche il simbolo del mistero in senso generale, del non conoscibile genericamente inteso, ma anche degli stessi misteri; era infatti una delle allegorie orfiche ed accompagnava quella dello specchio: chi la indossava diventava altro da sé e, così come era previsto per un iniziato, cambiava vita, poiché da uno diveniva anche duplice ed al tempo stesso molti, mettendo in pratica su di sé la coincidentia oppositorum. Essa inoltre era anche una delle tante teofanie di Dioniso: Pausania racconta che certi pescatori di Methymna, nell’isola di Lesbo, là dove, secondo il mito, approdò anche la testa mozza di Orfeo sulla sua lira, trovarono una maschera (πρόσωπον) di legno di ulivo e, credendola la testa del dio, la considerarono una sua manifestazione. Agli Stoici, dei quali i Neoplatonici ed Inni orfici non a caso sono debitori, dobbiamo l’allegoria della maschera (latino persona) come ruolo recitato dall’uomo nella propria vita: è Epitteto nel Manuale (Ἐγχειρίδιον Ἐπικτήτου, XVII) a darci questo insegnamento:
Μέμνησο, ὅτι ὑποκριτὴς εἶ δράματος, οἵ ου ἂν θέλῃ ὁ διδάσκαλος· ἂν βραχύ, βραχέος· ἂν μακρόν, μακροῦ· ἂν πτωχὸν ὑποκρί νασθαί σε θέλῃ, 

ἵνα καὶ τοῦτον εὐφυῶς ὑποκρί νῃ ἂν χωλόν, ἂν ἄρχοντα, ἂν ἰ διώτην. σὸν γὰρ τοῦτ' ἔστι, τὸ δοθὲν ὑποκρί νασθαι πρόσωπον καλῶς· ἐκλέξασθαι δ' αὐτὸ ἄλλου.
Leopardi nel suo Manuale di Epitteto traduce così:
Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentar bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro.
Sembra di sentire anche il monito di Pletone agli uomini affinché svolgano con dedizione e consapevolezza il proprio ruolo, assegnato nella koinonìa da Zeus, qui rappresentato dal poeta che attribuisce le parti. Del resto Epitteto era stato uno dei maestri di morale del filosofo di Mistra ed il Nostro poteva ritrovare vicendevolmente confermati nell’uno i concetti dell’altro e nei loro i propri. Leopardi traduce con persona, alla latina, il vocabolo πρόσωπον, ovvero adopera la stessa parola che è nella traduzione dal greco al latino di Poliziano del medesimo brano:
Memento actorem te esse fabulae, quamcumque is velit, qui docet: si brevem, brevis, si longam, longae. Si mendicum agere te velit, et tunc ingegnose age: si claudum, si principem, si privatum. Ad te enim pertinet datam tibi personam bene agere, eligere ad alium.
Il Nostro usa la metafora della “pluralità” che ne deriva, più che del “nascondimento”, nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri (capitolo I), laddove loda Socrate:
Anche diceva, che nei libri dei Socratici, la persona di Socrate è simile a quelle maschere, ciascuna delle quali nelle nostre commedie antiche, ha da per tutto un nome, un abito, un’indole; ma nel rimanente varia in ciascuna commedia. >>
(da Maria Assunta Scannerini, Arimane, la scelta delle tenebre: Giacomo Leopardi ed il Neoplatonismo orfico-mazdeistico di Giorgio Gemisto Pletone, Youcanprint, 2017, pp. 322-323)


Nel Rinascimento l'allegoria della maschera, anche come rappresentazione "duale" di vizio e virtù, è anche nell'iconografia pittorica: nel 1534 ca Giorgio Vasari se ne servì per fare un ritratto postumo di Lorenzo il Magnifico, che tanto aveva incoraggiato il Neoplatonismo. Il pittore descrive in una lettera al duca Alessandro de Medici la propria opera (e si notino, per inciso, le "rose e le viole" come simbolo di virtù):
Farollo adunque a sedere, vestito d’una veste lunga pavonazza, foderata di lupi bianchi e la man ritta piglierà un fazzoletto, che pende da una coreggia larga all’antica, che lo cigne in mezzo. Dove a quella sarà appiccata una scarsella di velluto rosso a uso di borsa e col braccio ritto poserà in un pilastro, finto di marmo, il quale regge un’anticaglia di porfido e in detto pilastro vi sarà una testa di una Bugia, finta di marmo, che si morde la lingua, scoperta dalla mano di Lorenzo il Magnifico.

Il zoccolo sarà intagliato e faravvisi drento queste lettere: “Sicut maiores mihi ita et ego post[eris] mea virtute preluxi” Sopra questo ho fatta una maschera bruttissima, figurata per il Vizio, la quale stando a diacere in su la fronte, sarà conculcata da un purissimo vaso, pien di rose e di viole, con queste lettere: “Virtus omnium vas”. Arà questo vaso una cannella da versare acqua appartatamente, nella quale sarà infilzata una maschera pulita, bellissima, coronata di lauro; e in fronte queste lettere o vero nella cannella: “Premium virtutis”.
Dall’altra banda si farà del medesimo porfido finto una lucerna all’antica con piede fantastico e una maschera bizzarra in cima, la quale mostri che l’olio si possa mettere fra le corna in su la fronte; e cosi cavando di bocca la lingua, per quella facci papiro e così facci lume, mostrando, che il Magnifico per il governo suo singulare non solo nella eloquenza, ma in ogni cosa, massime nel giudizio fe' lume a’ discendenti suoi e a cotesta magnifica città. (lettera senza una data precisa - se ne conosce solo il mese, gennaio - da Le opere di Giorgio Vasari, pittore e architetto aretino, parte 2, vol. 2, Davide Passigli e Soci, Firenze, 1838, p. 1425).

(dalla pagina Facebook Leopardi ed il Neoplatonismo in Arimane, la scelta delle tenebre, @ArimaneLeopardi).

martedì 13 marzo 2018

Sibille "neoplatoniche" a Siena

Sul pavimento del Duomo di Siena sono raffigurate numerose Sibille, figure di profetesse che, in quanto pagane, sono solitamente avulse dall'iconografia dei luoghi di culto cristiani. La loro presenza in realtà è spiegabile con le dottrine neoplatoniche rinascimentali, che all'epoca (*) della realizzazione delle tarsie in questione - ed a quella di Ermete Trismegisto, creata con il medesimo intento filosofico - fondevano credenze pagane e fede cristiana: esse erano annunciatrici della venuta di Gesù ovvero facevano parte anch'esse di una catena sapienziale che da Zoroastro arrivava al Vangelo, culmine della tradizione della Verità. Il concetto di catena sapienziale era stato ereditato da Marsilio Ficino da Giorgio Gemisto Pletone.
La più celebre delle Sibille è la Cumana, ricordata da Virgilio nel libro VI dell'Eneide, quello della katabasis - o discesa da vivo - di Enea all'Ade: ella ha in mano un ramoscello di quercia - o, secondo altra interpretazione, di vischio, nato sulla quercia -, il famoso ramo d'oro, che, come ricorda il poeta latino, l'eroe greco porta con sé come lasciapassare per il mondo infero; nel cartiglio con il quale è raffigurata (**) è ricordata la famosissima "profezia" dell'Egloga IV di Virgilio ed il mito della serena Età dell'oro dell'umanità fanciulla a cui il Bambino nascituro avrebbe riportato il mondo.
Anche Giacomo Leopardi rammenta con nostalgia, insieme alla favole antiche ovvero ai miti pagani, "la bella età, cui la sciagura e l'atra/face del ver consunse/innanzi il tempo" ("La primavera o delle favole antiche", vv. 12-.14).
Numerosi artisti dipinsero Sibille in chiese o edifici annessi rinascimentali: per esempio Ghirlandaio nella volta della Cappella Sassetti in Santa Trinita a Firenze, Filippino Lippi nella Cappella Carafa nella basilica di Santa Maria sopra Minerva a Roma, Pinturicchio nell'Appartamento Borgia in Vaticano, Raffaello nella cappella Chigi della chiesa di Santa Maria della Pace a Roma, Michelangelo nella volta della Cappella Sistina, ecc.
(*) autori vari (1482-1483);
(**) ogni immagine di Sibilla è accompagnata dal suo nome e da quello dell'autore antico dal quale è citata e dalla "profezia" attribuitale.

(dalla pagina Facebook Leopardi ed il Neoplatonismo in Arimane, la scelta delle tenebre, @ArimaneLeopardi).
Nelle immagini dal web, alcune delle tarsie senesi Sibille.

Sibilla Cumana
Sibilla Delfica

Sibilla Cumea

Sibilla Frigia

Sibilla Ellespontica

Vanitas vanitatum: il genere della vanitas

La vanitas è un genere di natura morta, in auge soprattutto nel XVII secolo, che mostra motti ammonitori e/o allegorie relative alla caducità della vita: teschi, clessidre, candele consumate, fiori appassiti e/o frutti avvizziti (celeberrimo è il Canestro di frutta del Caravaggio, ma, in letteratura, a ragione può essergli accostata la celebre pagina leopardiana del giardino "duale", apparentemente bellissimo, in realtà in stato di souffrance, di Zibaldone, 4175); la vanitas può essere anche la raffigurazione di un personaggio che abbia un aspetto apparentemente bello, che nasconda il suo disfacimento, magari riflesso in uno specchio. 

Le vanitates, che celano la dualità della bellezza, che spesso nasconde un opposto terrificante ovvero la polarità vita/morte, hanno la loro genesi nella famosa frase dell'Ecclesiaste I, 2 e XII, 8, vanitas vanitatum et omnia vanitas, ripresa dagli Umanisti, in particolar modo da Marsilio Ficino (Theologia Platonica de immortalitate animorum, XXII), e poi riproposta con forza da Giordano Bruno. Il genere della vanitas è dunque un'esasperazione di quel sentimento doloroso di caducità della vita umana che si avverte anche nel Rinascimento, giacché gli Umanisti neoplatonici insegnavano, sulla scia di Plotino, che il mondo fenomenico era tenebra ovvero assenza di luce divina, pertanto il nulla. 

Nelle vanitates si ritrovano dunque, seppure ne è dimenticata la genesi, molte delle dottrine neoplatoniche rinascimentali portate alle estreme conseguenze: i concetti neoplatonici degli opposti, della vita umana umbratile, delle tenebre fenomeniche, perfino l'allegoria dionisiaco-orfico-neoplatonica dello specchio, che riflette il molteplice fenomenico, a sua volta espressione di polarità inganno/verità.








Villa dei Misteri, Pompei













L'archetipo orfico-dionisiaco potrebbe essere riconosciuto nel particolare dell'affresco della Villa dei Misteri di Pompei con il satiro dallo specchio - ovvero una coppa che funge da specchio - in cui si riflette una maschera, altro simbolo duale orfico-dionisiaco e neoplatonico del molteplice fenomenico.

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Nelle immagini seguenti, Donna allo specchio di Tiziano (1512-1515), in cui gli specchi sono ben due, uno che riflette il davanti ed un altro, concavo, che riflette il dietro, implementando il concetto del molteplice fenomenico; Vanitas di Jan Sanders van Hemessen (1535-1540); La Prudenza di Piero del Pollaiolo (1470), che è abile nel maneggiare sia lo specchio sia il serpente, entrambi duali, la cui iconografia è ripresa da Girolamo Macchietti (1535-1592) nella sua Allegoria della Prudenza


Donna allo specchio, Tiziano
Vanitas, Jan Sanders van Hemesse

 La Prudenza, Piero del Pollaiolo
Allegoria della Prudenza, GirolamoMacchietti



Un particolare esempio di vanitas può a ragione essere considerata la Mappa del Mondo nel Cappello del Matto (Fool's Cap Map of the World).


Questa stranissima, "misteriosa" mappa, se guardata con occhi "neoplatonici" diventa chiarissima: vi sono illustrati innanzi tutto la figura del giullare, che nelle corti rinascimentali era sempre presente e che, tra le altre allegorie, come i nani, era simbolo di intelligenza e di veridicità "nascoste" in un corpo deforme o quantomeno ridicolo ovvero di "dualità" di "opposti" (il Bello nel Deforme, il deforme che nell'arte diventa bello, il Saggio nel Matto ...), ma soprattutto, tra i vari motti ed i simboli, lo specchio, che riflette il molteplice fenomenico ingannatore, concetto rimarcato dalla frase dell'Ecclesiaste della vanitas vanitatum, che lo illustra, e un detto di Salomone (Ficino, per esempio, e poi Bruno si riferirono nei loro scritti al concetto biblico della vanitas) o il riferimento nel cartiglio con le maschere - ulteriore simbologia orfico-neoplatonica - all'allegoria del Democritus ridens e dell'Heraclitus lugens - o flens ed il motto delfico dei Sette savi, poi socratico, Nosce te ipsum, entrambi fatti propri dagli Umanisti neoplatonici.
La mappa, opera di un certo Epichtonius Cosmopolites (uno pseudonimo significativamente neoplatonico, dal significato di Terrestre e/o Mortale Cosmopolita ovvero Cittadino del Cosmo/Mondo), è databile 1580-1590, il che dimostra che la simbologia del Neoplatonismo, pur cassato dalla Controriforma, era per taluni ancora valida (del resto fu portata alle estreme conseguenze iconografiche e concettuali appunto  nel genere delle vanitates barocche).