martedì 19 dicembre 2017

Il San Giovanni Battista Capitolino-Pamphilj di Caravaggio.





Nel quadro intitolato a san Giovanni, conservato nei Musei Capitolini e nella copia presente nella Galleria Doria Pamphilj, Caravaggio per rappresentare il santo giovinetto usa a ben guardare un’iconografia insolita, nella quale si può scorgere un probabile influsso dell’iconografia rinascimentale, sincretistica e cripto-pagana, benché ormai essa fosse stata ormai costretta a subire progressive modificazioni ed infine tendesse all’oblio, al tramontare del Neoplatonismo e dello spirito stesso del Rinascimento: innanzi tutto il pittore, anziché l’agnello consueto, accosta a san Giovanni un caprone o ariete; non lo veste, secondo il racconto evangelico, con la pelle del cammello, che taluni fanno indossare anche alla sua raffigurazione infantile; inserisce nel dipinto piante quali l’edera ed il verbasco.






Il caprone era animale dionisiaco per eccellenza: esso era sacrificato a Dioniso (nell’Orfismo il sacrificio cruento fu sostituito da quello simbolico) e durante la celebrazione del rito gli adepti si vestivano con pelli di quell’animale, una delle numerose epifanie del dio era il capro ed il genere letterario della tragedia, che ha origine da canti dionisiaci, deriva il suo nome da τράγος, capro, e ᾠδή, canto, significando dunque in origine canto del caprone. Ricordiamo che la figura di Dioniso/Bacco è una delle più usate allegorie del Rinascimento neoplatonico, che, nato dal sincretismo, si serviva di immagini letterario-filosofiche e di iconografia polisemiche, ovvero dai molteplici significati


La vite, come è noto, era pianta dionisiaca e bacchica per eccellenza. Il tasso barbasco o verbasco (Verbascum Thapsus) è una pianta dai significati iconografici importantissimi: da sempre usata come pianta medicinale, nel Rinascimento neoplatonico, permeato dal culto della luce, si allude ad essa allegoricamente in quanto “pianta della luce” per eccellenza, poiché i suoi fiori sono gialli e perché con i suoi steli si facevano candele e stoppini (il suo nome greco, φλόμος, è connesso a φλόξ, fiamma); da tale significato si passa a quello di rinascita e di resurrezione, non solo per l’ovvia allegoria della luce, ma anche perché si tratta di una pianta che alterna un anno di quiescenza ad un altro di fioritura e perché inoltre si credeva che, se accostata a certi tipi di frutta, ne scongiurasse la putrefazione (in specie i fichi). Anche Dioniso/Bacco, oltre ad essere in origine la divinità del rigoglio del rinnovamento primaverile ed in epoca rinascimentale del vigore vivificante, secondo il mito orfico era rinato da morte, dopo che il suo cuore, salvato da Athena dallo smembramento da parte dei Titani del suo corpo nell’aspetto di Zagreo bambino, era stato ingoiato da Zeus; era protagonista di una katabasis, essendo in seguito sceso nell’Ade e risalito in terra per riportare in vita la madre Semele, donna mortale; ed il suo epiteto di Trieterikòs allude inoltre al suo essere il dio "dei due anni alterni" (le Feste Trieteriche in suo onore erano a scadenza biennale, proprio come la fioritura della pianta).


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